Mallarmé riteneva che all'intellettuale, e al poeta in specie, non restasse ormai altro da fare che scolpire il proprio nome sulla tomba, celebrando così un lutto che, iniziato agli esordi stessi della scrittura (per via del suo stesso statuto che la vuole inesorabilmente postuma), rinvia poi alla consapevolezza, questa sì tutta mallarmeana, del "gioco insensato di scrivere". L'intellettuale si scopre abitante da sempre di un cimitero, quello della letteratura, ma al tempo stesso custode di questo mondo defunto, e quindi in una condizione di liminalità, sospeso fra vita e morte: si nutre vampiristicamente della scrittura defunta, e la riattiva facendola propria, pur sapendo in questa operazione di consegnare a sua volta se stesso a questo universo di morte. "Sottrarre" all'assenza la scrittura, farla nascere, significa esattamente come per gli esseri viventi, consegnarla alla morte, riaffidarla all'assenza: l'intellettuale fa da tramite fra due assenze.
La scrittura tuttavia, e questa era già stata l'inquietudine di Platone, agisce anche se postuma (una lettera, un testamento, un decreto), anche in assenza dell'emittente, rappresenta una sorta di energia, di volontà autonoma, che si dispiega proprio grazie all'assenza originaria. Di qui la pluralità delle valenze che può assumere, e degli effetti che può produrre.
Già nell' Anthologia graeca, come ricorda Robert Curtius nel suo celebre Letteratura europea e Medio Evo latino, la scrittura e il libro sono al centro di tutta una serie di procedimenti letterari volti alla loro tematizzazione in chiave metaforica: esistevano epigrammi sulle tavolette scrittorie, sulla cera spalmata sulle tavolette, sulla penna, e si metteva in guardia contro i tarli del libro. La vita stessa è paragonata a un volume che si srotola; d'altronde nell' Apocalisse si prediceva che «il cielo si arrotolerà su di sé come un papiro». Nel Medioevo il martirio di san Cassiano, maestro di scuola, si traduce non metaforicamente nell'aggressione dei suoi allievi che gli spezzano le tavolette scrittorie sul capo e lo trapassano con le punte degli stili. Arrigo da Settimello paragona il volto umano a un libro: «Il volto è il libro e la pagina della realtà interna» (Internique status liber est et pagina vultus); e ancora: «Il cielo sia la pagina, le fronde lo scrivano, e l'onda / l'inchiostro: non potranno raccontare le mie pene» (Pagina sit celum, sint frondes scriba, sit unda / Incaustrum: mala non nostra referre queant). Il tema sarà ricorrente in Shakespeare («leggi sul volume della faccia del giovane Paride, / e trova la delizia che in esso ha scritto la penna della / bellezza», è detto nel Romeo e Giulietta). Ildeberto paragona invece il cuore a un libro, modellandosi su esempi collaudati: «Nel libro del cuore leggi tutto quel che vi hai di sporco; / non puoi leggerlo altrove così bene come là» (In libro cordis lege quicquid habes ibi sordis; / Non legis hoc alibi tam bene sicut ibi). Dante nelle Rime parla di «libro della mente» e di «libro della mia memoria». Ugo di Fouilloi di «libro della ragione»; Bernardo Silvestre del «testo del tempo» (Gottfried Keller riprenderà l'immagine in termini suggestivi: «È una pergamena bianca / il tempo, e ciascuno vi scrive / con il suo sangue rosso, finché la corrente se lo porta via»). Bonaventura parla del «libro interiore»; Niccolò Cusano della mente come di «un libro intellettuale». Poi verrà il «libro mondo»; nel Cinquecento in Spagna Luis de Granada vede le creature del «mirabile libro dell'universo» sotto forma di «lettere viventi» (letras vivas). La metafora avrà poi grande successo: John Owen afferma: «Questo libro è il mondo»; per Francis Quarles negli Emblems (1635): «Il mondo è un libro in folio, tutto stampato / con le grandi opere di Dio a lettere maiuscole». E analogamente John Donne, Milton, Vaughan, Herbert, Crashaw. In Francia sarà Cartesio a parlare del «gran libro del mondo» (le grand livre du monde); Diderot dirà d'aver attinto le sue conoscenze davvero importanti dal «libro del mondo»; Rousseau, tramite Lord Edouard inviterà Wolmar nella Nouvelle Héloïse a leggere nel libro «della natura»; con Goethe avremo invece il «libro vivente» caro allo Sturm und Drang: «Guarda: un libro vivente è la Natura, / non mai compreso, ma non incomprensibile».
Proprio per il suo carattere conoscitivo la scrittura svolge anche un ruolo sorprendentemente vampirizzante che lascia sgomento Senancour, ad esempio, quando si rende conto, nel romanzo giovanile Oberman (1804), del paradosso di un discorso che, mentre cresce e accresce, al tempo stesso sottrae e diminuisce. Quanto più frequentiamo i testi, tanto più questi ipotecano la nostra esperienza, procurandoci un sapere e delle sensazioni fittizi, destinati a condizionare il nostro futuro: avremo già appreso tutto prima di aver sperimentato qualsiasi cosa, e quanto più avremo saputo, tanto meno potremo sperimentare in modo autonomo, consegnati per sempre all'inautentico.